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Un urlo. Poi niente.
Rimasi ferma davanti alla scogliera. Tremante dallo strazio e dal terrore. La avevo uccisa. Quel pensiero mi trafiggeva la mente, mi attaccava e io non potevo difendermi. Non volevo difendermi. Avrei dato qualsiasi cosa pur di essere al posto di mia sorella, laggiù, in mare, un pasto assicurato ai pesci. La scogliera da qui era caduta era troppo alta per che fosse ancora viva, e anche se Dio le aveva concesso questo miracolo, il mare era profondo due volte la scogliera e Anna non sapeva nuotare.
Le lacrime già presenti iniziarono a sgorgare come un fiume in piena, inarrestabili e devastanti, perché se i suoi segni non ti rimangono per tutta la vita, ti rimangono per molto, molto tempo. Ed è difficile dimenticare.
La gente incominciò ad arrivare richiamata dall’urlo di una voce familiare. Tutti capirono. Chi prima e chi dopo. C’era chi si copriva la bocca con le mani, chi iniziava a sussurrare e chi si asciugava le lacrime. Io rimasi là. Ancora tremante. Nessuno osò avvicinarsi. Forse per paura. Ed era anche plausibile. Spesso avevo attacchi di rabbia, attacchi di rabbia incontrollata. Tranne mia sorella. Quando mi succedeva ero come un uragano. Travolgevo e distruggevo tutto ciò che avevo davanti.
Improvvisamente la folla si divise in due, lasciando passare un uomo e una donna.
‘’È stato un incidente… stavamo giocando’’. Fu tutto ciò che riuscii a dire ai miei genitori. Poi caddi inginocchio, mi piegai e continuai il mio pianto straziante, lento ed implacabile. Ogni lacrima che lasciavo andare via lasciava posto ad un dolore immenso. Come se il rimorso mi mangiasse da dentro.
Qualcuno si avvicinò e fece per portarmi via. Io cercai di opporre resistenza. Ma ero troppo debole, e così mi lasciai trascinare via avevo gli occhi talmente appannati dalle lacrime che non riuscivo a capire che mi avesse trascinato via dalla scogliera. Doveva essere sicuramente un ragazzino vista la statura. Attraversammo quasi metà villaggio fino arrivare ad una casa. La mia casa presupposi. Aprì la porta che dava sulla cucina e mi mise seduta su una sedia. ‘’Vai, a lei ci penso io’’ disse un’anziana scendendo dalle scale, che riconobbi come mia nonna. Il ragazzo uscì e si chiuse la porta alle spalle. ‘’Su, adesso hai pianto anche abbastanza’’, disse mia nonna asciugandomi le lacrime con le mani grinzose. Quando le sue calde mani passarono sui miei occhi asciugandomi le lacrime, potei intravedere la cucina e il viso di mia nonna: pieno di rughe e bagnato da due righe di lacrime. Era il suo modo di esprimere il dolore. Il suo viso ospitava un sorriso evidentemente forzato di chi ha perso tanto. I suoi capelli bianchi sciolti mi riempirono il viso quando si alzò e, prima di mettere l'acqua per il tè sul fornello, si chinò per darmi un bacio.
Nel momento in cui mise l'acqua a bollire, si girò e mi disse: ‘’Adesso è ora che vai a riposare’’ e mi fece cenno di salire in camera. Mi alzai e tremante sali i gradini, aggrappandomi al cuore in mano di ferro.
Aprì la porta di camera mia trovai il mio gatto seduto sopra davanzale, che guardava verso la scogliera mi sdraiai sul letto, continuai il mio pianto inarrestabile. Dopo svariati minuti di pianto mi rigirai su un fianco, e lo sguardo mi cadde sul comodino, dove tenevo una foto mia e di mia sorella. Nella foto avevo circa 10 anni e lei 11. Erano passati due anni. Eravamo davanti alla scogliera.
Una era l'opposto dell'altra. lei aveva i capelli lunghi come il fuoco, indomabili bellissimi, occhi blu, profondi come il mare in cui era caduta, una pelle scura quasi quanto la terra ed aggraziata da come l'aria. Io invece avevo capelli mori corti fino alle spalle occhi nerissimi.
Lei era dolce e gentile. Io acida e scontrosa.
Improvvisamente una vampata di fuoco iniziò a mangiarmi da dentro divorandomi pezzo per pezzo. Presi la foto e la scagliai dalla finestra aperta. Iniziai urlare forte con tutto il fiato che avevo. La cosa che mi fece distrarre da quella rabbia improvvisa fu il gatto seduto sul davanzale che in tutto ciò non fece un frizzo. Mi era sempre piaciuto quel gatto. per il suo colore del pelo, ovvero bianco, e degli occhi cioè grigio chiaro tendente al viola, sia per il suo comportamento che dimostrava intelligenza superiore agli altri gatti. Invece mia sorella odiava quel gatto. Qualcuno bussò alla porta ed entrò. Vidi la figura bassetta di mia nonna entrare dalla porta, con una tazza di tè. La poggiò sul comodino. La nonna si sedette sul letto accanto a me. Presi la tazza di tè, e mi sedetti accanto alla nonna. Al tatto la tazza non era bollente quindi capì che la nonna non era salita in quel momento. ‘’Hai sentito tutto, vero?’’ ‘’Si’’. Appoggiai la testa sul tuo petto. ‘’Non pensi che sia stata io?’’ ‘’No, certo che no, non avresti mai potuto farlo. Neanche in uno dei tuoi attacchi di rabbia’’. Mi disse lei. ‘’Ma adesso è ora che vai a letto: hai bisogno di riposare’’, guardai fuori dalla finestra, non mi ero accorta che il sole era già tramontato. Con quelle parole la nonna mi lasciò da sola in camera con il gatto. Chiusi la finestra e tirai le tende per potermi cambiare. Una volta infilata sotto le lenzuola mi sentì avvolgere dal calore di esse.
Non faticai ad addormentarmi poiché ero stremata dall'accaduto, ma in compenso non riuscii a fare sogni tranquilli. ‘’ il bordo della scogliera era a due passi da loro. << Vediamo se riesci a prendermi>> disse la mora, mentre la rossa aumentava la corsa ed inciampava, cadendo nel vuoto’’. Mi svegliai di soprassalto e mi accorsi che il gatto si era accoccolato a me. Guardai la sveglia. Era notte fonda. Nessuno si era ancora alzato. Sopra di me avevo un macigno. Un macigno che mi schiacciava ad ogni respiro. Dentro me mi ripetevo che era colpa mia. Non potevo vivere in quel modo. Dovevo andarmene. O altrimenti il peso mi avrebbe sopraffatto. Mi alzai e mi vestii. Dopo di che andai a sgrufolare nell’armadio, fino a trovare uno zaino. Ci misi alcuni vestiti. Poi aprì la porta con cautela e, con lo zaino in mano, scesi in cucina. Presi del pane, della carne, tre scatole di fiammiferi, ed un coltello. Poi uscii giardino a prendere una la torcia.
Improvvisamente sentì un miagolio. Mi girai e trovai e il gatto, che si strusciava sulla mia gamba. Gli feci segno di fare piano, ma non prima di prenderlo in braccio. Dopotutto mi avrebbe potuto fare compagnia. Uscì dal cancello. E mi avviai verso il bosco. Tutto taceva. C'era una fitta oscurità. Presi la torcia e la accesi. Avevo paura. Ma sapevo che una volta allontanatami sarebbe stato meglio per tutti.
Seguii la strada che portava al bosco. Una strada levigata, dapprima molto intensamente e accuratamente, mentre via via che ci si avvicinava al bosco, la strada era molto trascurata. Segui la strada fino ad arrivare al bosco, dove diventava un sentiero. L'oscurità la era dieci volte più fitta. Strinsi la torcia con maggiore intensità, cercando in qualche modo conforto. mi guardai un'ultima volta indietro, a vedere la città, ancora con i lampioni spenti. Feci il Primo passo dentro la foresta, e con coraggio feci pure il secondo, poi il terzo, e così via.
Solo quando fui sicura di essere lontana dal villaggio, uscii fuori sentiero, per andare chi sa dove, sperando in un miracolo. camminai per quelle che mi sembrarono ore, inciampando nei nidi di quaglie e fagiani, graffiandomi con i rovi, impegnandomi nei rami bassi. Sempre con il gatto in braccio.
Anche se avessi voluto tornare indietro non avrei potuto.
Vagai per tutta la notte a quel modo, terrorizzata dal bubbolio dei gufi, fino ad arrivare ad uno spiazzo dove sorgeva una catapecchia abbandonata. Pensai che potessi rimanere là. Così mi avviai verso la traballante struttura. Dopo un paio di metri, il gatto saltò giù dalle mie braccia e andò a stendersi sotto l’ombra di un albero. Stavo tremando, ero più tranquilla della notte ma anche abbastanza agitata. Tirai la maniglia in basso e poi verso di me. Aprì la porta e feci un passo dentro. Mi guardai attorno era tutto buio. C’era un divano tutto rosicchiato dalle tarme, travi di legno cadute dappertutto ed un armadio scrostato dalla vernice.
La porta alle mie spalle si chiuse. Accesi la torcia. Davanti alla porta si trovava il gatto. Ci studiammo a vicenda. Poi la sua schiena si incominciò ad arcare, sempre di più, fin quasi a spezzarsi. Poi dalla pelle pelosa emerse una ragazzina non molto più grande di me. Strabuzzai gli occhi per il terrore. ‘’ciao’’ disse lei con un tono per niente amichevole. ‘’ finalmente mi vedi col mio vero aspetto. Di piaccio di più così?’’ mi chiese lei facendo una giravolta. Aveva capelli lunghi bianchi, occhi grigi tendenti al viola. Sarebbe sembrata anemica se non fosse stato per la pelle olivastra. ‘’ No. È evidente che mi preferisci da gatto. Ma fra molto la tua opinione non conterà molto. Anzi non sarai nemmeno nella posizione per esprimere la tua opinione’’. Così dicendo si trasformò in un lupo, dello stesso colore del gatto, e saltò verso la ‘’bruna’’.
Un urlo. Poi niente.
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