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ERLING E IL PALLONE DORATO


Era il 21 novembre del 1971 quando nacque un bambino come tanti altri.

Un bambino biondo con gli occhi azzurri, alto per la sua età, allegro e vivace; a vedersi sembrava più un principe che un futuro giocatore di calcio.

Il problema era come pensava e cosa elaborava la sua mente. Intorno ai tre anni Erling, questo era il suo nome, subì subito un’operazione alla testa perché era malato di “Menteteorologia” cioè una malattia al cervello, che provoca troppi impulsi nervosi ed è pericolosa per la salute e per le persone perché non si sa se sia contagiosa.

Superato questo problema, a cinque anni gli viene la passione per il calcio.

Sua mamma Maya non era particolarmente d’accordo perché aveva il timore che si potesse fare molto male, magari prendendo una pallonata in testa.

Suo padre Alexander invece voleva a tutti i costi che suo figlio iniziasse a giocare a calcio perché da giovane lui era stato un grande calciatore.

Lo portarono a fare una visita medica e la dottoressa disse che non avrebbe potuto fare nessun tipo di sport.

Quel giorno Erling guardò negli occhi la dottoressa incredulo e confuso; era giù di morale, vedeva annebbiato, voleva spaccare il mondo, le gambe erano dure come il marmo e aveva un terribile nodo in gola.

Non diede retta alla dottoressa. Dopo un mese andò con una squadra svedese dove conobbe molti compagni e a sette anni fece (sempre in un piccolo paesino della Svezia) un torneo, dove come capocannoniere, vinse una coppa con 15 Goal in 17 partite!!!

“Wow, che bel giocatore, senza di me come farebbero!” Esclamò Erling vantandosi.

La squadra rientrò negli spogliatoi ed Erling, avendo solo sette anni, era felicissimo.

Con il passare degli anni si allenò duramente e fece molti goal ma non era ancora soddisfatto di se stesso.

L’allenatore Lucas esperto di calcio, anche se anziano, gli promise che dopo due anni lo avrebbe portato a giocare in Messico.

Purtroppo la malattia si riavvicinò, ogni tanto gli impulsi nervosi prendevano il sopravvento; i suoi genitori erano disperati e non sapevano come reagire un’altra volta per poter aiutare il figlio a guarire.

Altri medici lo visitarono ma non trovarono la soluzione al problema; tentarono tentarono e tentarono, ma oramai Erling aveva tredici anni e il sogno del Messico era andato in frantumi come il suo cuore.

Il mister cercò un ultima volta di aiutarlo e chiamò il grande chirurgo Adam Wilson che visitò Erling.

Dopo tutto il tempo passato, Erling non stava più nella pelle, era tutto ad un tratto impaziente, felice, triste, ansioso e il suo cuore stava per esplodere.

Provarono un farmaco innovativo che fece subito i primi effetti; Erling non aveva più il mal di testa ed era più calmo e mentre giocava, aveva scoperto anche che la malattia non era contagiosa per chi gli stava accanto.

Prima di poter ricominciare a giocare però passarono tre anni. Lucas, il suo grande mister, nel frattempo aveva lasciato questo mondo ed Erling piangeva spesso, ripensando ai bei momenti passati con lui, a quanto lo avesse aiutato in questi anni. Ora aveva sedici anni e poteva finalmente giocare in prima squadra, un sogno che aveva portato con sé fin da piccolo. Fu chiamato dalla squadra “Cruz Azul Football Club” in Messico. I suoi genitori non sapevano se piangere o essere contenti per lui.

Il suo chirurgo approvò la scelta di farlo partire, mettendo comunque sempre al primo posto la consapevolezza della sua malattia fisica da tenere sotto controllo.

Il medico gli propose di comperare un caschetto nero da indossare sempre prima di ogni partita, per proteggere la sua testa. In Messico fece una grande carriera da giocatore e all’età di ventun anni gli arrivò una lettera dal BORUSSIA DORTMUND per essere il primo attaccante della squadra.

Si trasferì così in Germania. Il tempo lì era caldo come il suo cuore, gioioso e affascinato da quella immensa città. Dagli spalti, lo stadio era piccolo ma da dentro faceva un grande effetto, le nuvole lo coprivano di grigio e l’eco delle voci riempiva il campo dove Erling giocò sempre titolare fino all’età di ventisette anni.

Nel frattempo conobbe Angela, che divenne sua moglie da cui ebbe tre figli maschi.

I suoi genitori, oramai anziani, si trasferirono vicino ai nipoti in Germania per il resto dei loro anni.

La malattia era semi-svanita, come un ricordo lontano. L’ultima partita di campionato non giocò titolare subito dai primi minuti ma entrò per tirare una punizione decisiva. Al 90° minuto l’ arbitro fischiò, Erling tirò e il suo tiro si insaccò in rete. Finì la partita, vinsero il campionato. Erling si aggiudicò il pallone d’oro! Nel mentre il capitano della squadra avversaria uscì ferocemente dagli spogliatoi come un toro infuriato e, arrivando di corsa, buttò a terra Erling con una testata. Non avendo il caschetto, cadde a terra battendo forte la testa.

Il colpo era stato letale, voluto e fatale; il corpo sussultava da una parte all’altra, gli ultimi istanti della sua vita, accerchiato da fotografi e giornalisti e dalla sua famiglia in lacrime. Seguirono i funerali con tanti tifosi, amici e giocatori. Il colpevole pagò con il carcere. Tutta la famiglia e la squadra di Erling ancora oggi lo ricordano come “l’angioletto biondo” che ha vinto e per sempre porterà con sé il desiderato e meritato pallone dorato.





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1 Comment


Montecucco Aurora
Montecucco Aurora
Feb 10, 2022

Bravo Manu... mi è piaciuto molto il tuo testo.

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© 2019 Lauretta Ricci

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