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HAROLD - Greta Visconti



Bianco. Bianco ma così bianco da accecare. Il mio villaggio è diventato monocolore. Bagliori lattei baluginano per le stradicciole e la neve ricopre il terreno sotto i piedi dei passanti. Fiocchi cristallizzati scendono dal cielo fumoso, adornando con graziosa fragilità case, negozi e macchine. La gente si è previdentemente protetta. Alcuni indossano giacconi pesanti e grigi, in modo tale da sembrare caprette; altri portano buffe sciarpe colorate, che inducono a grattarsi chiunque le guardi e altri ancora si sotterrano all'interno di chili di maglioni natalizi. Insomma, solo le punte dei nasi e delle orecchie sbucano dai comici e caldissimi vestiti. Pare che tutti stamattina abbiano deciso di andare a passeggio, perché non c'è angolo del tranquillo paesino vuoto o silenzioso. L'aria, colma di respiri infreddoliti, cela fermento. “Ovvio, a due giorni dal Natale cosa mi devo aspettare?” penso. Dunque, per gli sfortunati esseri umani che ancora non sanno chi sono, mi presenterò. Il mio nome viaggia sperduto nella landa desolata dei nomi da buttare e ogni sera sogna di essere migliore. Io e lui abbiamo un pensiero in comune: “Potevano i nostri crudeli genitori chiamarci in modo diverso?”. Ebbene no. Inoltrandovi nella terra della quale vi ho parlato, aggirando Abdul, sorpassando il tavolo di gioco di Ebenizer e arrivando vicino a Gengis, troverete... tattaratà: Harold. Per favore, niente commenti. Teneteli per voi. So cosa state pensando, ma non mi interessa. Ormai ad Harold ci sono affezionato. È un pezzo del mio puzzle, un rintocco indispensabile della campana della mia vita, un frammento dello specchio della mia anima. Non saprei come separarmene, al solo pensiero avverto una malinconica nostalgia. Ogni persona, animale o pianta segue il ciclo della vita e questo sto facendo anch'io. Forse (o forse no) vi chiederete: “Ma quanto sarà grande Harold?”. Mi sento un granello di polvere fra gli strumenti di pulizia, un pidocchio travolto dallo shampoo, un brandello di canottiera sporca in lavatrice. Tutto ciò perché l'universo è abitato da creature centenarie e al loro cospetto rappresento un microscopico, inutile esserino. Ho la misera età di dodici anni, passati in un pianeta molto lontano dalla Terra. Di questo luogo però parleremo dopo, anche perché adesso mi devo descrivere. Gli occhi sono la parte migliore. Ho due pupille color coda di arcobaleno, con sfumature di nuvole alla griglia e mari addormentati. Quando sento il cuore sbocciare per la felicità, lo sguardo mi si riempie di fiori variopinti; mentre quando ho l'anima serrata in morse d'acciaio vi compaiono pesantissime catene. Per nascondere le emozioni, però, ci sono degli occhiali speciali. Li adoro. Mano a mano che cresco, loro si dilatano con me, infatti ho lo stesso paio sin dalla nascita. Oltre ad una vista potentissima, sono dotato anche di un olfatto molto sviluppato. Pensate che alle volte riesco addirittura ad annusare il cielo. Sa di aria, di scoperta, di vecchiaia... Sormonta le nostre teste senza paragoni, da miliardi di anni e lo fa gratis. Mi affascina, con quel suo colorito cristallino, ma i giorni in cui si arrabbia fa paura. Si scurisce tutto e scaglia fulmini come fossero peluche. L'hobby che preferisco è ascoltare e scrutare la sua furia comodamente seduto sul divano. Aspettate, c'è un ultima cosa da sapere: le mie labbra sono violacee. A seconda della temperatura esterna diventano lilla, fucsia, malva, magenta, pervinca etc. Lo ammetto, è divertente stare ad osservare la propria bocca che cambia colore e poi esistono un sacco di meravigliose tonalità. Sono così strano perché abito su un pianeta assurdamente stravagante. Vivo giornate bellissime e, ora che mi conoscete, posso condividerne una con voi. Alle due di mattina, sento la voce gracchiante di mia madre strillare: “Harolduccio, tesoro, forza, alzati” e con questo stridulo comando inizia la routine quotidiana. A fatica, come uno zombie, mi tiro su e corro in cucina. Lo chef in famiglia è papà e per lui ogni pasto ha importanza, compresa la colazione. Oggi siamo al 4 maggio, l'inverno sta iniziando, quindi c'è del cibo caldo. Mi aspetto un po' di latte e miele, ma quando siedo a tavola davanti a me scorgo un'infinità di dolciumi fumanti. “Papà”, dico, sconcertato. Lui risponde: “Sì, cucciolino?”. Non ribatto, sono troppo impegnato a riflettere “Chissà se posso mangiare tutto questo bendidio!”, mi chiedo. Il cuore si colma di indecisione. Alla fine cedo e, più veloce del vento, acchiappo una ciambella glassata. Senza pensare, la ficco tra le mascelle, ma...: “Uuuuuk!”. Il mio grido risuona per la casa. La lingua sta prendendo fuoco, fa così male che non riesco a muovermi. Sento il sapore dolciastro e ferroso del sangue, vedo nero. Ho dimenticato un dettaglio: il dolce è stato cotto dentro le fauci di Bernie, il nostro draghetto. Alle volte lui, credendo che nessuno lo veda, ruba qualche pezzetto sacher, ma è un ottimo forno. Anche se il palato mi sta implorando di non farlo, bevo un sorso d'acqua e stacco un altro morso dalla ciambella. Tengo il boccone fra i denti, incrocio le dita e lo mando giù. Per fortuna non succede niente. Dopo un nanosecondo la glassa fa effetto. È dolce come un frappè di gioia e soffice come dei cupcake di armonia, veramente squisita. Adesso che ho divorato due fette di torta ricoperta dal cioccolato; cinque bomboloni super fritti e molteplici dolcetti ai cerali, necessariamente devo lavare i denti. Vado al bagno. Vicino alla doccia c'è la mia personale capsula. Mi infilo all'interno, apro la bocca e sonnecchio. Lunghi bracci robotici si snodano, tirano fuori da chissà dove il loro armamentario e cominciano. Prima, con un ronzio metallico, spremono il dentifricio alla coca cola sul mio spazzolino e poi mi passano quest'ultimo fra i denti. Immediatamente avverto una bevanda rinfrescante che facendo mille bollicine scende lungo la gola. “Buonissima”, penso, ma subito vengo distratto perché ho le gengive invase da nuovi sapori: marron glacé e gomme all'arancia. Il filo interdentale “Tutti Gusti”, ecco cos'è! Volo nel mondo della goduria, immagini di frutteti arancioni mi invadono il campo visivo, susseguite da paesaggi autunnali, foglie e castagne calde. L'incanto però viene interrotto. È ora di sciacquare il viso. Pigio uno dei tre bottoni sulle pareti della capsula, quello giallo limone. Dal nulla compare un lavandino e delle mani d'acciaio mi massaggiano la faccia, spalmandoci il sapone all'uva. Adesso ho la pelle più liscia di un uovo, ma devo assolutamente pettinare i rossi capelli che mi stanno piantati in testa. “Facile!”, direte! No, cari, è un'ardua impresa. Magari avessi una chioma normale...Invece mi ritrovo dei fili d'ottone duri come rocce. Mentre il pettine di ferro agisce, mamma strilla: “Forza, Haroldino, o arriverai tardi a scuola.”. So che stavolta la ragione è dalla sua parte, per cui mi precipito in camera. Il pigiama schizza via e vengo sommerso dai vestiti. Tutto diventa rosa, verde, blu e bianco, ma in qualche minuto sono pronto. Vi ricordate quando inizialmente ho descritto il paesaggio? Ecco, quella è la situazione che mi sono trovato davanti appena ho varcato la porta di casa. Si avvicina il 6 maggio (da noi corrisponde al Natale), anch'io dovrò comprare qualche regalino per amici e parenti, ma non ci voglio pensare. Mi avvolgo più che posso nel cappotto imbottito perché il gelo e la brina si infiltrano sotto il colletto in pelliccia e cammino velocemente. Giungo innanzi alla porta della mia classe col fiatone e, cartella sottobraccio, prendo posto dietro la cattedra. Giocherello con una matita aspettando che gli alunni colmino l'aula vuota. Goffamente, uno sciame di adulti si accalca a testa bassa, tentando di entrare. “Sedutiii”, grido. Silenzio. Diligentemente, tutti tacciono e, rossi come pomodori, si accomodano sulle seggiole scricchiolanti. “Mmm, vediamo. Che materie c'erano oggi?” chiedo. Un signore calvo alza la mano, il doppio mento che gli tremola. Con un cenno lo faccio parlare e lui mi risponde: “Le prime due ore abbiamo Sognidorologia se non sbaglio.” “Giusto, giusto. Ah, guardate, ho trovato il programma. Dunque, la terza ora c'è Cibomatica e le ultime due Geoanarchia, capito?” affermo. Inizio la lezione distribuendo i cuscini e spiegando le regole più importanti, come l'angolazione della testa e la posizione della faccia, ma in questa materia gli studenti sono frane. Non reggo, ogni giorno è così e torno a casa con la testa pulsante. Sebbene la voce ormai sia roca, esasperato ripeto: “Il collo giratelo per due quarti, non per un terzo!”. Mi guardano come allocchi, storditi e confusi. Osservo i banchi scoraggiato e finalmente trovo una persona che ha seguito le istruzioni alla lettera. Quasi mi dispiace doverla svegliare. Si tratta di una donna castana, coi capelli simili a volute di onde color nocciola. Le tocco leggermente una spalla e lei sobbalza. “Signora Oblikowsky, per il suo impegno merita un bel più!”, esclamo e corro a segnare il voto. In quel momento l'allegro squillare della campanella mi interrompe. Esulto, non vedo l'ora di mangiare. Sono eccitato perché per merenda ci sarà sicuramente qualcosa di buono. Apro il paniere e addento le gustosissime scorze d'arancia ricoperte di cioccolato che esso contiene. Peccato, faccio appena in tempo a leccarmi il mignolo, dopo le lezioni ripartono. Grazie al cielo, sono in compresenza, quindi posso evitare di sgolarmi. “Uffa, ora ho Cibomatica!” penso. L'insegnante parla e parla e parla… la testa mi ciondola mentre fingo di stare attento, un sonnolento torpore conquista il mio cervello, ma posso farcela! Come non detto. Mi risveglio nel panico, con addosso quello spiacevole e indescrivibile miscuglio di stanchezza, nervosismo e irritazione. Alla lavagna scorgo un ragazzo brufoloso. Non è né bambino, né del tutto adulto, però sta risolvendo correttamente il problema assegnatogli per compito. Perfino io ci ho messo un po' a capirlo, era abbastanza difficile: due polli diviso tre pizze per otto torcoli, quanto fa? “Ovvio, dodici!” Quest'illuminazione mi fornisce la risposta, ma il poveretto alla lavagna si blocca col gesso in mano. Quando infine riesce a risolvere il dilemma la quarta ora scocca. Percorro mille corridoi fino ad arrivare nell'aula Arcobaleno. Lì tiro fuori valanghe di fogli dalla cartella azzurra e li correggo. Sono le verifiche e i quaderni da restituire! La disperazione mi attacca, con le sue lance appuntite si infiltra nei pensieri e provoca fitte “Mantieni la calma. In fondo, ti è capitato di peggio altre volte…”. Prendo il materiale e lavoro. L'amarezza nell'assegnare voti rossi che distruggono i cuori degli alunni è infinita, rende tristi le giornate. “Sarò io a spiegare male?” rifletto. “Eppure amo questo lavoro e ci dedico tempo, cura, attenzione.”. Finalmente sono le 9:00 e si può tornare a casa. Il tempo è volato! Le grida gioiose per i corridoi scaldano l'anima a me e ai miei colleghi bambini, esausti. Sono contento, sto per pranzare. Lo stomaco mi brontola in modo un po' imbarazzante, non ha pazienza. “Buono adesso ti riempio.”, gli sussurro. Arrivato al mio appartamento suono il campanello e la porta viene aperta dalla mamma. Ci incamminiamo verso il salotto, dove papà attende sorridendo. “Oggi sono tornato tardi, la prof di Geoanarchia l'ha fatta lunga.”, cantilena. Guardo il tavolo e capisco. Ha ordinato. Un suono si diffonde per la stanza assordandoci : “Vado io!”, grido. Afferro scatole e scatolette e caccio il fattorino. “Tesoro, per te c'è una cosa speciale!”, strilla mia madre. Porto il cibo in salotto e lo distribuisco. Per papà una specie di sushi nerastro e molliccio; per mamma una confezione di noodles ai gamberetti e quanto a me... pizza con il salame! Adoro il gusto del formaggio filante e delle fette belle spesse, l'odorino emanato mi attira. Apro la scatola e mangio, contento. Come previsto, è tutto buonissimo, ma ora sono proprio pieno. Se solo penso ai pasti, una nausea fortissima sale dal fondo della pancia. Boccheggiando chiedo: “Posso accendere la TV?”. Con un cenno ottengo il permesso. Acchiappo il telecomando e faccio zapping. Ad un tratto capito sul Tg3 e il presentatore annuncia: “In diretta da casa sua, Harold Zagara!”. Sono spiazzato, un po' mi vergogno di parlare davanti alla gente, la timidezza ostruisce la strada. Siccome conosco di persona il signore (o meglio, il bimbo) che conduce il notiziario accetto l'intervista. Sul nostro pianeta i piccoli lavorano e comandano, mentre i grandi, cioè adolescenti e adulti, obbediscono. I giornalisti richiedono il mio parere sull'introduzione di piscine nelle scuole. Il pensiero generale è questo: prima si impara a nuotare, meglio è! Secondo me potrebbe trattarsi di un'ottima idea. Affermo: “Beh, sicuramente renderebbe agli studenti più piacevoli le mattinate e sarebbe anche utile, quindi non vedo perché no!” Papà mi guarda grato e subito arriva una nuova domanda: “Per inserire il nuoto alcune materie vanno eliminate! Lei che ne dice?”. Rispondo: “ Non necessariamente. Al posto di motoria si può inserire Educazione Acquatica, tanto nuoto rientra tra gli sport.” Detto questo, cambio canale, non voglio altri problemi. Vedo un piatto pieno di spaghetti e penso “Oh no! MasterChef.” Due mani escono dal televisore e mi porgono il cibo. “Ora basta!”, dico, e con un gesto secco spengo il televisore. Preferisco fare i compiti. Barcollo verso il Sapienzatore e ci entro. Sfilze di numeri azzurrognoli mi forano la testa, mentre apprendo nuove nozioni. Le materie si susseguono senza fine, non capisco niente. Di solito sto dentro cinque, sei ore, ma oggi è un giorno strano. Esco scombussolato e guardo l'orologio. Già le quattro del pomeriggio, fra poco si cena. Corro in cucina e chiedo alla mamma: “È pronto?”. Lei mi risponde: “Sì tesoro, vai chiamare papà”. Mi dirigo verso il soggiorno e chi vedo? Quel pigrone che invece di apparecchiare sta spaparanzato in poltrona. Lo guardo sdegnato. Lui subito cerca di giustificarsi, ma gli grido: “Fila!”. Si alza sbuffando e insieme andiamo dalla mamma. La zuppa di patatine fritte è cotta. Adesso vi spiego. Per cena, noi qui il cibo lo possiamo solo succhiare, perciò deve essere frullato ben bene. Mi servo voracemente. Un gusto morbido e unto colpisce le mie papille gustative, deliziandole. Siccome la purea è tanta sono pieno. Vado a letto perché è tardi e domani alle due bisogna essere in piedi. Stanco, metto il pigiama e mi butto nella capsula sonnifera. Tutto si spegne, parte una musica dolcissima. “ Fra due giorni è Natale”, penso e abbandono mente e corpo al sonno, che arriva cantando una ninna nanna.


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