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La sveglia luccicava nell'oscurità, facendo lampeggiare numeri verdi come acido. Mi ero resa conto dell'ora solo dopo qualche attimo di confusa immobilità. Stavo seduta sul letto, scrutavo le tenebre e non riuscivo a muovere neanche un muscolo. Avevo gli occhi vitrei fissi nel vuoto, ma in poco tempo si erano volti verso l'aggeggio che ogni santa mattina mi stordiva. Beep Beep, le sei e mezzo. Uffa, troppo presto! Non potevo precipitarmi nella silenziosa camera dei miei impetuosamente per svegliarli, ma neanche non provarci. In fondo, il giorno di Natale, come si poteva giacere inerti sui materassi, mentre dei voluminosi pacchetti attendevano di essere lacerati? Non lo sapevo. Ormai, avevo preso una decisione. Veloce come la corrente, ero scesa dagli scalini del letto a castello quasi saltellando. Il corridoio scricchiolava sotto le mie calde ciabatte e ringraziavo di averle. Trotterellare sul freddo pavimento, duro e gelato, mi riempiva la pelle di piccoli, fastidiosi brividi. Alla fine avevo le braccia totalmente ricoperte dall'agghiacciante sensazione. Non ci tenevo a provarla di nuovo, per cui ora stavo sempre attenta a non girare scalza. Ero finalmente davanti all'ammasso di coperte sotto il quale riposavano i miei genitori, inumati dai plaid. Ricordo che, con tono incerto, avevo posto la fatidica domanda:"Andiamo?" Mamma, gli occhi impastati dal sonno, non si era curata di me e papà non sembrava del giusto umore. La risposta stressata però l'avevo assimilata. Un "No" così secco da farmi fuggire in camera. L'idea di trascorrere altre due ore respirando piano, sudando e aspettando interminabilmente mi tartassava. Agitandomi non avevo ottenuto niente, ma provare a riaddormentarmi era infattibile. Come potevo scacciare la noia che si infrattava nei canti più bui del mio essere? Non lo sapevo. Il tempo non passava. Mi rivoltavo come uno spaghetto intorno alla forchetta. Spesso gettavo fugaci occhiate all'orologio ma i minuti, impigliati nella rete dell'alba, continuavano a trascinare lentamente i piedi. Ad un tratto il cervello aveva smesso di tormentarmi, stava finendo quella tortura, gli istanti correvano col fiatone! Ormai le luci fredde penetravano attraverso le serrande, illuminando la mia impazienza. Theo aveva iniziato a tirarsi su dalla cuccetta e a sbadigliare. Ci eravamo fiondati dai genitori. Stavolta li avevamo convinti e ora svogliatamente attraversavano le stanze per raggiungere il salotto. L'albero ammaliava, con gli angioletti di legno e le luci accese. Sotto, però, su un pezzo di tela, sei pacchetti minuscoli e striminziti sembravano supplicarci di non aprirli. Confronto alle distese di doni degli anni precedenti facevano pena. Mi ero avvicinata, schiacciando la delusione e spiaccicandola. Detestavo l'infantilità e l'ingordigia e il senso di colpa continuava a pressare e spingere. Eppure non riuscivo a disintegrare quella sciocca incompletezza che mi rattristava. Mentre da fuori sorridevo, due parti di me, dilaniate dall'incertezza, combattevano acidulamente. Come dovevo reagire? Non lo sapevo. Alla fine, avevo semplicemente deciso di godermi la mattinata e abbandonare le riflessioni sul fondo di un nero e accecante dirupo. Mi ero divertita a staccare dolcemente la lucida carta a gufetti per poi sbrandellarla. Proprio quando credevo di aver finito, mi ero accorta di un rettangolo. Stracciandolo, la scatola di un tablet si era materializzata. I miei lineamenti, ebbri di stupore ed eccitazione, quasi non si riconoscevano. Non riuscivo a distogliere gli occhi da quell'agognato oggetto. Per anni avevo sognato di far slittare le dita sullo schermo liscio. La sorpresa di averlo tutto per me era immane. Con una mano poggiata sul divano e l'altra mezz'aria, aveva intuito la grandezza del gesto. Mamma e papà, sempre diffidenti dalle intelligenze artificiali, si erano finalmente fidati. Ma non dei computer, di me. Pensavo a ciò che avevo passato. La gioia del momento si mischiava alla paura di farmi afferrare da qualcosa di grande, potente. Qualcosa che coi suoi modi affascinanti irretiva. Solo in quel momento, avevo compreso l'intrigante mistero della tecnologia, dal quale ero sempre stata lontana. Gli arcieri della felicità scagliavano frecce sull'insicurezza, che usava unghie e denti per difendersi. Avevo un terrore crescente. Quello di perdere le uniche certezze nell'instabilità della vita: lettura e scrittura mi avevano sempre accompagnato, non potevo dimenticarle. Davvero volevo lasciarmi trascinare da un mondo così pericoloso e mutevole in una trappola senza scampo? Non lo sapevo. Come sempre ero squarciata dai dubbi. Fissando il tablet però avevo deciso di provare ad usarlo. Dopo averlo svogliatamente attaccato alla presa, ero corsa giocare con le altre cose. Contavo i secondi trepidante, i palmi sudati e pruriginosi. Un lato negativo consisteva proprio nell'odiata attesa. Ogni persona intorno a me avvertiva la mia tensione e il mio desiderio represso. Poco dopo, ero caracollata verso la cucina con i pugni serrati. Subito avevo adocchiato la batteria, allegramente carica. Con mamma accanto, mi ero cimentata nell'impresa di configurare le impostazioni. Avevo faticato tantissimo. Annoiata, i pollici scattanti e gli occhi pronti a cogliere il minimo segnale. Così stavo. Ero nervosa, non reggevo. Volevo solo finire l'odissea avviatasi per colpa mia e far altro. Avevo le labbra tremolanti e le palpebre che parevano muoversi ogni secondo. L'ansia mi stava distruggendo. Nell'aria tutto era teso. Noi, spazientite, fissavamo lo schermo trucemente. Ad un tratto, lo sfondo era comparso. Sì, ce l'avevamo fatta, ma lo scontento si contorceva nei nostri cuori. L'atmosfera, ora elettrica, non aiutava. La faccia di papà, contratta, pareva pronta ad esplodere e qualcosa non quadrava. Avvertivo un'insolita rabbia che avvelenava l'ossigeno. I miei genitori erano sbottati e le loro urla si sentivano da lontano. Pensavo :"Anche a Natale?" e soffrivo in silenzio. Volevo solo andare d'accordo. Il pianto mi soffocava, avevo la gola intasata. Sentivo le lacrime pungermi le guance calde e non riuscivo a trattenermi. Ero piuttosto spaventata, nella pancia avevo un roseo misto di emozioni. Perché per ogni cosa doveva scoppiare una baruffa? Non lo sapevo. Chiusa in camera, con alcuni timbri in mano, cercavo di non pensare. Di evadere da quel serraglio colmo fino all'orlo dei sentimenti che provavo. La porta si era spalancata con uno “Sbam”. Mia madre aveva fatto irruzione urlando. Non volevo rispondere, ma lei imperterrita continuava, ostinatamente. Mi ero immaginata una mattina allegra e rilassante, invece stava andando a rotoli. Avevo un tumulto di sensazioni negative nel cuore e desideravo un po' di pace. In casa però non c'erano luoghi silenziosi, a parte la soffitta. Così, passo dopo passo, avevo salito le due rampe di scale, con il gelo nelle ossa. Un freddo strano mi conferiva staticità, immobilizzandomi, il naso rosso e piedi formicolanti. Stavo seduta sul camino, circondata da Pinocchi a molla, bacchette di Harry Potter e macchinine. Dentro di me, sentivo un vertiginoso vuoto. Era forse colpa mia? Non lo sapevo. Avevo la bocca serrata ermeticamente. La mantellina che amavo era al piano inferiore, ma non volevo tornare a prenderla. Da giù esalava un profumino delizioso. Con lo stomaco borbottante, ero balzata sui gradini di marmo. Un languorino mi lambiva. In casa regnava ora una gioia rivitalizzante. La lunga tavola imbandita ci riuniva, alimentando le nostre occhiate golose. Un antipasto sopraffino pazientava, rassegnato alla sua sorte. Pezzi di polenta quadrata e d'oro, simili a lingotti, erano guarniti con cremoso brie e vivaci broccoli; sui piatti colorati, crostini rivestiti di varie salse emanavano invitanti odorini. "La perfezione sotto forma di cibo", pensavo. In quel momento, un pentolone pieno di tortellini inzuppati nel brodo, aveva fatto il suo ingresso trionfale. Mi ero strafogata, ingollando i bocconi, la faccia estasiata. Poco prima, stavo disperatamente seduta, mentre adesso gustavo un pasto superlativo. Incredibile come il tempo passava. Mangiavo voracemente, sentivo la pasta traboccante di carne saporita fra i denti. Adoravo mia nonna e ciò che amorosamente cucinava. Il piano di legno, da marrone a rosso, rifulgeva, abbacinante. C'erano posate d'argento, alti calici e vassoi pieni di meraviglie. Bignè friabili imbottiti di noci croccanti e fresco gorgonzola, fette di pane abbrustolito con sopra un burro candido e pezzi di roseo salmone, bastoncini di speck avvolti in formaggio fuso e tanto altro. Il naso me l'aveva detta giusta, all'orizzonte si vedeva un banchetto vivace e caldo. In una frazione di secondo, la scena era mutata. Sedie vuote, tavola deserta e poltrone scricchiolanti sotto al nostro peso. Satolla e soddisfatta, stavo sdraiata sul divano soffice. Il mio stato di torbido sopore però non aveva riscosso grande successo: un attimo dopo infatti ero entusiasta ed energica. Un'idea geniale mia aveva fulminata: registrare un filmino. Mentre vagavo per l'appartamento emettevo strani versi, scoppiavo in risate assurde e infastidivo le persone. Finita l'esperienza cinematografica, mi ero messa a leggere. La mia mente distratta vagabondava in lande desolate e si perdeva ogni due per tre. Non pensavo più a nulla, se non alle nitide immagini che si dipanavano come matasse di lana di fronte a me. Mi sembrava di innalzarmi sempre di più e toccare con la punta del naso universi sconosciuti. Ero pervasa dall'odore del mercato, descritto alla perfezione. Avvertivo un aroma speziato e polveroso. I profumi e le puzze della realtà non mi toccavano, così come i suoni e le scene. Ormai solo il corpo restava saldamente ancorato ai cuscini. Potevo passare ore così; drogata della forma delle parole; dipendente dal fruscio della carta. Piano piano, però, stavo tornando alla vita, cruda e priva di magia. Mi ero risvegliata. Con passo leggero, avevo raggiunto la camera. In sottofondo, mamma diceva: "Grety, metti in ordine!". Percepivo velatamente la sua voce, mi sembrava di essere diventata passiva, una marionetta. Non mi muovevo, i piedi mi trainavano. Non ascoltavo, le orecchie adempivano al loro dovere. Avevo il cervello inconscio; dentro sentivo solo una calma adamantina. Ero uscita da un tunnel magico, dove nessuna logica frenava l'anarchia dei pensieri. Le lancette dell'orologio si susseguivano caoticamente: tic, tac, tic tic, tac, tac. Ormai per me esisteva unicamente il volume che stringevo. Tac, tac, tic, tac, tic. Di nuovo ero calata in panni altrui. Nel cuore però si delineava l'identità di Greta Visconti, dai contorni ben definiti. A malincuore, l'incanto mi aveva abbandonato. Era sera, ormai. Non mi restava altro che cenare. Tutti riuniti, avevamo piluccato qualche fetta d'ananas, annoiati. Perché la cena era così desolante? Non lo sapevo. Un vuoto mi temprava. La gioia, scomparsa. La triste tovaglia grigia ospitava solo un po' di frutta, che sembrava insipida. Avevo la faccia sgombra dalle emozioni e ogni morso di fredda mela mi nauseava. Questo Natale non era stato meraviglioso come gli altri. Parevamo invecchiati di mille anni; carichi di ipotesi, mai di certezze. Per quale motivo la giornata era naufragata? Come mai il nero aveva preso il comando? Che ragioni c'erano dietro tutto ciò? Non lo sapevo.
Grazie Giulia, sono piacevolmente sorpresa che tu abbia letto il testo e commentato, con parole così gentili ed educate!!
Penso che questo testo sia a dir poco fantastico, con così tante parole di cui non ne avevo mai sentito la pronuncia, descrizioni, wow!
Ciao ragazzi, so' che i miei testi sono lunghi e stancanti, infatti mi scuso e vi capisco se non avete voglia di leggerli... chi è arrivato alla fine però dedico questo commento, complimenti ma soprattutto GRAZIE di aver sopportato righe e righe di fatica da parte mia e forse noia dalla vostra! Buona serata