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ROSA PARKS - Greta Visconti



Era sera. Tentacoli di scure ombre si allungavano come nastri, illuminando Montgomery, in Alabama, di una luce nera. L'aria invernale che quel primo dicembre riempiva le narici dei passanti, profumava di legna da ardere, castagne dorate e croccanti e brina ghiacciata. Una donna camminava canticchiando motivetti natalizi e facendo ticchettare i bassi tacchi. La sua pelle ocra era lucida, simile ai parquet che si potevano trovare nelle abitazioni dei ricchi. Gli occhi scintillavano, due lampadine marrone scuro nella fitta nebbia che calava insieme alla notte. Erano meravigliosi. Pagliuzze dorate li punteggiavano come diamanti incastonati nelle sfumature nocciola, cioccolato e legno delle pupille. La signora vestiva raffinatamente. Benché fosse piuttosto povera, manteneva un aspetto austero ed elegante. Portava una bombetta azzurra leggermente calcata sui capelli ondulati e dei fragili occhialetti ovali accentuavano il suo sguardo profondo. Questo il mio parere su di lei. Avevo solo nove anni, ma già sapevo che i miei familiari odiavano le persone di colore. Le disprezzavano e le consideravano inferiori, inutili autonomi senza sentimenti. Quando ne parlavano mi facevano paura, perché le loro facce assumevano assurde smorfie di disgusto, come se in petto non avessero più il cuore. Sembrava fosse rinchiuso sotto una campana di vetro in una cassaforte coperta di lucchetti. Io invece i neri li vedevo sotto forma di eroi coraggiosi. Sopportavano le parole oscene lanciategli contro senza ribattere, a testa china, ma con il sangue pulsante per la rabbia. Non potevano urlare, ridere o sentirsi umani. Venivano trattati come bestie e le loro schiene piegate erano rosse per le crudeli sferzate inflitte dalla frusta. Mentre tali riflessioni mi facevano assumere espressioni segnate, però, stava succedendo qualcosa. La signora che mi aveva suscitato tutti questi pensieri inciampò e mi gettai in avanti per acchiapparla. Cadde fra le mie braccia, ma riuscii a sostenerne il peso. Non avevo idea del perché l'avessi aiutata, mi sembrava la cosa migliore da fare. Adesso ero fiera e orgogliosa della buona azione compiuta e ne gioivo. La signora pronunciò, con voce lieve, queste parole: "Grazie, tesoro". Io le risposi: "Si figuri signora, sono contenta di averla aiutata!". Immaginai la rabbia che avrebbe empito i lineamenti dei miei se fossero venuti a conoscenza dell'episodio e decisi di tenerlo per me. Prima di ricominciare a camminare, però, la signora estrasse dalla tasca qualcosa. Luccicava fra le sue mani, producendo bagliori accecanti. Me lo porse e lo strinsi fra le dita, senza guardarlo. "Grazie", dissi, "Ora è meglio che mi avvii o perderò l'autobus." Lei rispose: "Io sono Rosa. Rosa Parks." Mezz'ora dopo il nostro bus si fermò stridendo come una comare arrabbiata. Rosa mi aveva rivelato di dover anche lei salire sul mezzo. Prima di entrarci, decisi di tirare fuori il regalo misterioso, perché stavo morendo dalla curiosità. Mi rodeva da dentro, occupandomi il cervello e facendomi formicolare le gambe. Non reggevo più. Presi l'oggetto dalla bocca scura del giaccone imbottito e lo toccai. La carta dorata scricchiolava e mi invitava ad aprirla. Tirai i fiocchi fremendo e mi promisi che sempre avrei conservato quell'incarto speciale. Scoprii un pallino di cioccolato. Lo addentai. Era morbido fuori, ma dentro aveva un biscotto sbriciolato al burro. Il sapore del dolce mi riempì la bocca. Mi stavo perdendo nei ricordi. Rosa, premurosamente, mi risvegliò e io corsi sull'autobus subito prima della sua partenza. La mia protettrice salì dopo di me, addentrandosi nella folla di facce chiare e scure. Solo due di tutti i posti presenti erano vuoti. Ci sistemammo l'una accanto all'altra. Mi sedetti sul sedile più esterno e appoggiai la schiena dolorante. Sprofondai nel rassicurante calduccio e pian piano mi riscalda gli indici gelati. L'autobus partì, il suo moto regolare che mi cullava. Dopo quelli che a me parvero pochi attimi, di nuovo ci fermammo. Le porte si schiusero, permettendo al nevischio e agli spifferi di sgusciare all'interno. Insieme al gelo, entrò anche un uomo. Viso duro, sguardo di ghiaccio, smoking nero. Queste le cose che saltavano più all'occhio. Percorse i corridoi con passo cadenzato, premendo i tacchi come a voler schiacciare fastidiose chiocciole invisibili. Arrivò davanti a me e Rosa. Con unico, sgradevole gesto della mano intimò alla mia amica di cedergli il posto. Lei, calma, senza neanche guardarlo, gli sbatté in faccia un "No" così secco che rimasi stupita. Da davanti l'autista emise un urlaccio e, con parole volgari, masticando insulti, minacciò Rosa di chiamare la polizia. Lei, stavolta in tono poco più alto, disse: "Come vuole". Poco dopo, le sirene ululavano per la città. Le macchine si fermarono silenziosamente, simili a gatti furtivi. I poliziotti irruppero sul pullman e ascoltarono il racconto dell'accaduto. Mi fecero spostare e poi, con malavoglia, pronunciano quelle due parole che tanto temevo: "Ci segua!". Rosa mosse le gambe per alzarsi e la aiutai a tirarsi su. Non le scese una lacrima, neanche una salata goccia le rigò il viso. Con gesto teatrale, mi abbracciò. Non capivo cosa le passasse per la mente. Forse l'angoscia era tale da impedirle di agitarsi, forse non stava neanche pensando ai fatti appena venuti… la testa mi scoppiava. Il giorno dopo andai in carcere a cercarla. C'era un odore di cibi stantii e muffa che avrebbe potuto benissimo occupare i miei incubi peggiori. Raggiunsi la cella di Rosa impensierita, con le prime rughe sulla fronte. La guardai. Era sempre la stessa. Bombetta, occhiali e tacchi bassi. Manteneva un'aria austera in mezzo al buio.

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© 2019 Lauretta Ricci

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