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“Bep, Bep Bep ““Hoooo”, erano le sette della mattina del primo dicembre 1955. Ero ancora a letto e la sveglia suonava così veloce che sembrava impazzita.
Ero ignara di quello che sarebbe successo. Mi alzai dal mio vecchio letto, duro e polveroso, mi sedetti con gli occhi ancora mezzi chiusi, e mi misi le mie pantofole di color rosso scuro. Mi alzai e quando apri la porta vidi mio figlio, occhi verdi e vispi, capelli ricci che non ne volevano sapere di stare a posto ed un grande amore per le macchinine telecomandate. Fissava i miei occhi dal suo metro e venti, come se mi fossi dimenticata di qualcosa; “Che c’è Micheal” gli chiesi con area annoiata, “Il tuo compleanno mamma!" "Oh, è vero… "
Me ne ero completamente dimenticata, ero così stressata da non ricordarmi nemmeno del mio compleanno.
Michael corse giù dalle scale, con un sorrisetto stampato in volto. Poco dopo scesi anch’io, e mentre scendevo un po' barcollante ed assonnata, presi gli occhiali appoggiati sullo scaffale dell’armadio vintage, posto in fondo alle scale. Dopo averli presi mi diressi a passi pesanti verso il tavolo per fare colazione.
Mio figlio era seduto al posto di mio marito, un uomo alto con occhi azzurri, capelli neri e di pelle scusa; la mattina non era mai a casa, partiva sempre molto presto per le “sfilate” protestanti sui diritti degli afroamericani.
Mi sedetti vicino a Michael, che aveva già iniziato a mangiare con gusto la sua colazione, rischiando di sporcarsi la divisa scolastica.
Appoggiai il gomito al tavolo e con la mano sorreggevo la testa, mentre guardavo la fetta biscottata galleggiare nel thè.
L’autobus di scuola arrivò e mio figlio con un balzo afferrò la sua cartella di pelle scura e strattonando la porta uscì di casa. Poco dopo finì anch’io di mangiare e tornai in camera per iniziare a vestirmi. Aprii l’armadio e presi un vestito rosso, molto leggero e ruvido al tatto; lo indossai e davanti allo specchio feci qualche piroetta per vedere come mi stava. Infine, mi misi un paio di tacchi alti, di colore nero e con delle rifiniture dorate. Prima di uscire allungai la mano e presi il pettine sulla cassapanca della stanza. Mi pettinai e guardandomi allo specchio con aria soddisfatta pensai: “Anche se sono nera non vuol dire che non sia bella”.
Mi misi al polso l’orologio e vide che il pullman sarebbe arrivato a breve, così senza perdere più tempo presi al volo la vecchia borsa appoggiata sulla sedia a dondolo che per poco non cadde.
Scesi le scale facendo attenzione a non inciampare sul lungo vestito. Appena uscii dalla porta guardandomi a destra e sinistra temendo che l’autobus fosse già passato. Quando vidi che di lui non c’era traccia, feci un respiro di sollievo e mi con il gomito mi appoggiai alla cassetta della posta, che scricchiolò “Crrr” come se stesse per rompersi.
Quel giorno il sole era alto nel cielo, sembrava un grande oceano, visto che non c’erano nuvole. Poco dopo arrivò il pullman era giallo ed aveva una finestra per ogni sedile. Le porte si aprirono scricchiolando “Shgrrr,” salì i gradini, i miei tacchi risuonavano sul freddo pavimento dell’autobus. L’autista, un uomo rozzo, ben piazzato, e con un grande amore per i giochi d’azzardo così tanto da aver
dilapidato i suoi risparmi mi seguì con lo sguardo mentre salivo.
Dopo aver preso il biglietto, piccolo, giallo e liscio, riscesi i gradini a schiena alta sotto gli sghignazzi delle altre persone. Persone bianche.
Feci tutto il vialetto osservando le nere strisce perpendicolari ai lati del pullman. Raggiunsi la porta e salii, mi sedetti dietro, non perché volessi, ma perché dovevo.
A quei tempi i pullman erano divisi, davanti i bianchi, dietro i neri; se non ci fosse stato posto i neri avrebbero dovuto lasciare il loro posto ai bianchi.
Mentre il pullman si dirigeva verso la grande fabbrica in cui lavoravo fuori dal finestrino la nebbia, caduta da poco sui campi creava una bellissima sfumatura color ocra. Poco dopo il pullman si fermò e scesi. Davanti a me, l’enorme titano d’acciaio sbuffava dai lunghi tubi, ed il rumore, quasi assordante delle macchine da cucire risuonava in tutta la fabbrica.
Entrai e mi sedetti alla mia solita postazione, piccola e puzzolente; infatti, dopo tanto cucire la macchina iniziava a fumare, e come la mia anche quella degli altri e dopo poco a malapena si riusciva a vedere l’enorme lampada che faceva luce in tutta la fabbrica.
Finalmente alle sei del pomeriggio il mio turno finì, e tutti i tre settori, di circa cento persone l’uno, uscimmo sulla piccola piazza ad aspettare il primo pullman.
Si saliva trenta alla volata, infetti non c’erano orari per l’arrivo a casa, potevi arrivare alle sette, alle otto o anche alle nove.
Sulla piazza i fiocchi di neve iniziarono a cadere al contrario di questa mattina si gelava e tutti si stringevano per scaldarsi un po'.
Il pullman arrivò sbattendo sulla neve che cadeva leggiadra, i suoi fari ci illuminavano come due occhi che volevano sapere di più su di noi. Appena si fermò, iniziammo tutti a correre per salire per primi, e nonostante spintoni, strattoni ed insulti, riuscii ad entrare, sull’autobus numero 2857.
Salì per prendere il biglietto, e per non tornare fuori al freddo decisi di sedermi nelle intermedie dove potevano sedersi tutti.
Mi misi vicino al finestrino, e mentre il pullman viaggiava guardando fuori vedevo le bellissime luci colorate che illuminavano la città come se fosse un faro.
L’odore pungente del freddo congelava i baffi degli uomini. Ad un certo punto un uomo bianco salì ad una delle fermate vicino casa mia; l’uomo si mise davanti al mio sedile guardandomi con aria di sfida. Io facevo finta di non vederlo, e con i miei piccoli occhiali color oro continuavo a guardare fuori dal finestrino. L’uomo continuava ad aspettare con le braccia conserte battendo il piede a terra.
Lui si stancò di aspettare e disse con aria stufa: ” Ti potresti alzare?” ”No” risposi, ero stanca di subire queste ingiustizie, secondo me eravamo tutti uguali. Poco dopo arrivò una chiamata dall’autista “Tutti i neri devono lasciare il loro posto ai bianchi” … “No” continuai a dire, gli uomini bianchi mi guardavano pensando: “Inaccettabile, cosa fa?” Mentre gli uomini neri dicevano:” Vai vai fagli vedere chi sei.” Dopo qualche minuto, arrivò l’autista, e disse: “Faccia sedere il signore o chiamo la polizia”
“Ok la chiami.”
Ero stanca, quello era il mio posto e li sarei stata. L’autista fermò l’autobus e poco dopo i lampeggianti della polizia risuonavano sulla strada sempre più forti verso il pullman. Dopo qualche minuto, la polizia salì a bordo, era vestita con una camicia, dei pantaloni blu ed un cappello con un grande stemma.
“Si alzi” ripeté di nuovo il poliziotto, mentre mi guardava dalla fessura che c’era tra la sua fronte e gli occhiali da sole. Dopo avermelo chiesto ripetutamente, mi afferrò il braccio con forza e mi tirò su dal sedile che traballò per un momento. Mi fecero firmare dei documenti, e poi sotto la vista di tutti i passeggeri mi fecero salire sull’auto e mi portarono sulla vecchia e grande prigione della città.
Appena arrivati entrammo in un grande cancello arrugginito e la polizia con uno spintone mi consegnò ad una delle guardie, per poi andarsene facendo alzare molta polvere con una sgommata improvvisa.
La guardia mi portò in una cella, era piccola al contrario della puzza di muffa che era immensa, così tanto che sembrava di stare in un'enorme groviera lasciata da due giorni nel deserto.
In quella cella passai ben tre giorni, mangiando piccole fette di pane stagionato e bevendo un bicchiere d’acqua, tutto questo servito su un antico piatto arrugginito. La notte in prigione non si dormiva, i cani abbaiavano, e i loro dente stridevano nel tentativo di rosicchiare le sbarre delle loro gabbie.
Io appoggiata tra il muro e le sbarre pensavo a mio figlio e a cosa facesse li fuori a casa di mia madre.
Una guardia mi aprì la cella facendo scricchiolare la porta di ferro “Sgrhhh.” Mi alzai da terra e con passo pesante la seguii verso la stanza in cui sarebbe avvenuto il giudizio. La guardia aprii una grande porta e dietro di lei una piccola sala affrescata, con ai lati delle panche ed al centro della stanza, sopra un tappeto rosso con frange color cappuccino, la cattedra del giudice posta al centro del tappeto come se lei fosse il capo. Poco dopo il giudice entrò, era un uomo robusto, indossava una lunga toga nera e sulla testa aveva una parrucca bianca. Si sedette sulla cattedra e dalla grande porta da cui ero entrata anch’io entrarono gli avvocati.
Il processo ebbe inizio ed io mi sedetti ad ascoltare il mio avvocato che in quel momento mi sembrava il mio angelo custode. Il processo andò avanti ed il mio legale ebbe la meglio; infatti, fui prosciolta dalle accuse e uscii di prigione.
Fuori l’oscurità aveva inghiottito la città e l’unica cosa che si vedeva erano i grandi lampioni accesi vicino alla fermata dell’autobus che mi avrebbe riportato a casa.
In quel momento riflettevo sulla mia famiglia e tirando un sospiro di sollievo pensando a cosa stesse facendo lontano da me.
Il pullman arrivò poco dopo facendomi sobbalzare, visto che mi ero quasi addormentata sulla vecchia panchina verde della fermata.
Salii e dopo aver pagato il biglietto, mi sedetti vicino ad un vecchio signore che con i suoi piccoli occhi continuava a guardare fuori dal finestrino senza accorgersi di me.
La mia casa distava circa trenta minuti, e così decisi di chiudere gli occhi e farmi cullare dagli ammortizzatori del pullman che molleggiavano lentamente sui dossi della strada. Arrivai a casa verso le ventidue e cinquanta e vidi mio figlio e mio marito che con gli occhi lucidi ed un sorrisetto tremolante mi aspettavano sulla porta della nostra abitazione.
Appena scesi i gradini del pullman Michael mi si fiondò addosso in una grande e stritolante abbraccio e mi disse:” Ben tornata mamma!”; mio marito invece guardava lo spettacolo con il viso arrossato e le lacrime agli occhi.
Subito dopo entrammo per cenare, mi mancava la mia casa, in cui ero cresciuta fin da piccola, la tavola era già apparecchiata ed al centro vi era un grande, bellissimo e succulento pollo arrosto, così ci sedemmo per cenare ed io cominciai a raccontare la mia avventura.
Dopo aver finito la cena, mio figlio iniziò a farmi molteplici domande su quello che avevo raccontato. Io mi sedetti sulla vecchia poltrona verde e inizia a rispondere. A forza di ascoltare le mie risposte, mio figlio iniziò a sbadigliare e poco dopo si addormentò accanto a me; io lo portai a letto e stanca com’ero mi addormentai anch’io.
La mattina seguente, dopo la solita routine, salutai Micheal alla fermata dell’autobus ed aspettai il mio per andare in fabbrica.
Quando salii sul pullman l’autista mi disse: “Non ti avevano messo in prigione?”; “Si, ma sono stata rilasciata”, e dopo quella piccola conversazione, l’uomo girò il viso guardando avanti ed io mi sedetti al solito posto.
Arrivata al lavoro, entrai e salutai i miei colleghi ma quando arrivai alla mia postazione una donna di colore, alta con i capelli neri e gli occhi marroni aveva preso il mio posto; “Cosa fai lì?” le dissi con una smorfia in faccia “Ho preso il tuo posto”, me l’ha detto il capo.
Io la guardai perplessa, mi girai e con un passo veloce e deciso mi diressi verso l’ufficio del capo, quando entrai sbattei la porta e senza neanche salutare gli dissi: “Perché mi hai sostituito?”, nessuno di vuole come dipendente dopo ciò che hai fatto! Io lo guardai disgustata dopo ciò che aveva detto, mentre lui continuava a roteare sulla sua seggiola con le ruote.
Uscii immediatamente dalla fabbrica con passi pesanti che rimbombavano, e sotto gli occhi di tutti mi diressi alla fermata dell’autobus.
Quando l’autista mi vide, si mise a ridere e mi chiese:” Già di ritorno?”, neanche gli risposo e senza guardarlo presi il biglietto e mi sedetti sull’ultima fila. Arrivata a casa trovai stranamente mio marito, “Cosa fai tu qui?” gli chiesi…” Mi hanno licenziato” mi rispose guardando a testa bassa il tavolo. In quel momento mi senti svenire, il cuore mi batteva a mille, le gambe erano deboli e la testa vuota…” Come faremo adesso?” chiesi a Sam. “secondo me dobbiamo trasferirci e ricominciare tutto da capo”, mi disse con gli occhi pieni di lacrime.
La sola idea mi terrorizzava, non sapevo cosa dire a Michael e presa dal panico pensai di prendere tutti i soldi che avevamo da parte e comprare una casa nuova altrove per farla sembrare una bella sorpresa. Infatti, così facemmo e ci trasferimmo ci trasferimmo a Detroit in una bella casa con più appartamenti, dove vivevano altre persone.
Iniziammo così una nuova vita ma quel “NO” avrebbe cambiato per sempre la mia vita e quella della mia famiglia.
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