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Era confusa. Voleva solo uscire dall'eterna notte in cui gli incubi l'avevano condotta. Camminava leggermente, i suoi piedi parevano piume che solleticavano il terreno suscettibile. L'erba frusciava scossa da un vento gelido, impietoso. Lo stesso vento che le ricopriva di brividi le caviglie nude. Lo stesso vento che le scuoteva i capelli. Lo stesso vento che le ghiacciava il cuore. Areta si dirigeva verso una casa. Molto familiare. Aveva le finestre di vetro fine seppur resistente, decorato da fiorellini minuziosamente intagliati. Da dentro filtrava una luce calda, amichevole. Possedeva un bagliore rassicurante, arancione e rosso. Quel fulgore attirava migliaia di falene, dai corpicini caldi e soffici. Areta aveva gettato una lunga e persistente occhiata all'interno dell'edificio. Un'allegra famigliola sedeva attorno al tavolo. I volti delle persone, cordiali e gioiosi, comunicavano felicità. Tutti parlavano, immersi in un'atmosfera accogliente e serena. Era un quadretto perfetto. Nonostante ciò, però, Areta diventava sempre più pallida, quasi traslucida. Una cosa non andava. La famiglia non doveva essere così allegra, non poteva. E Areta sapeva bene il perché. Perché nell'abitazione, a chiacchierare con gli altri, qualcuno mancava. E quel qualcuno ora girava inquietamente, col vento che le sfiorava le caviglie nude. Quel qualcuno, ora, era affacciato ad una finestra molto familiare.
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