![](https://static.wixstatic.com/media/nsplsh_73393954565233375f4838~mv2_d_5184_3049_s_4_2.jpg/v1/fill/w_980,h_576,al_c,q_85,usm_0.66_1.00_0.01,enc_avif,quality_auto/nsplsh_73393954565233375f4838~mv2_d_5184_3049_s_4_2.jpg)
Lucira voleva scappare. Stava fuori dal portone della triste casa in cui viveva, seduta sugli smorti scalini monocromatici. Le pareti dell'edificio trasmettevano un gelo profondo, che si insinuava nelle ossa della bimba già intirizzita e mezza addormentata. Quella grigia costruzione, pur essendo abbastanza grande, la faceva sentire oppressa, fuori posto. Anche all'esterno però avvertiva la stessa, spiacevole sensazione. Flussi di aria appestata le invadevano narici, occhi e orecchie, facendola tossire. I fumi della città la avvolgevano, rendendola invisibile e procurandole un pizzicore alla gola, piena di grida mai uscite.
La sua vita era uniforme e compatta, per nulla colorata. Tutto ciò che la circondava, dai cibi poco cotti alla famiglia indaffarata, aveva un aspetto triste. Genitori e sorella vestivano di tre colori, nero, bianco e ocra, perfettamente in tono con l'ambiente circostante. La madre era una donna scialba e noiosa, con la faccia inespressiva perennemente distratta. Parlava in continuazione al telefono e sembrava stesse sempre chiusa in cucina a cuocere zuppe insapori come il suo carattere. Il marito invece aveva una corta barbetta e una liscia distesa di capelli marroni in abbinamento agli occhiali, identici a quelli di tanti altri. Trascorreva il proprio tempo digitando codici incomprensibili, immerso nei tanto amati tomi scientifici, e non prestava mai ascolto alle richieste di attenzione della figlia. Infine, la sorella. Perfino lei, pur essendo ancora una ragazzina, non era dotata di fantasia, come il resto delle persone che la attorniavano. Impiegava le ore libere delle quali disponeva a muovere le dita sullo schermo di un nuovo smartphone compratole da poco, giocando con realtà già impostate e ignorando il mondo intorno. Insomma, Lucira veniva respinta e ripudiata da ognuno di loro ed era costretta a rifugiarsi nella propria solitudine.
Mentre queste riflessioni le occupavano la mente, il rumore del traffico si faceva sempre più assordante. Dopo poco dovette varcare la soglia di casa sua, con la testolina dolorante e le lacrime agli occhi. Corse a chiudersi in camera e si buttò sulle coperte. Quello era l'unico luogo in cui amava stare. Attorno a sé, ruotando la testa, cominciò a scorgere gli oggetti che le erano cari. Lungo le pareti marroncine, due carte, delle quali la più ingiallita mostrava l'intero globo, la sorvegliavano. Lucira, guardandole, faceva affiorare tanti ricordi. Ripensò alle volte in cui, inginocchiata sul lettino scricchiolante, le aveva studiate bene, annotando su un foglietto tutte le loro particolarità, come il profumo di mare che vi
aleggiava sopra. Quella che preferiva era la seconda mappa. Rappresentava un deserto punteggiato di piramidi, tracce indelebili di una civiltà che aveva lasciato il segno. Il comò, posizionato davanti al finestrone dal quale entrava poca luce, era disseminato di adesivi colorati. Li aveva attaccati Lucira nei momenti di scoramento, quando neanche la sua vivacità bastava a tirarla su di morale. Oltre ad essi, però, c'era un'altra cosa, un altro oggetto che più di una volta le aveva infuso gioia ed energia, ovvero il lampadario a forma di mongolfiera che ciondolava sopra la sua testa giorno e notte. Se alzava lo sguardo, veniva rasserenata dalla presenza della calda luce che si spargeva per la cameretta. Queste semplici cose per lei valevano più di qualsiasi banconota o assegno, perché la accompagnavano attraverso le paludi acquitrinose nelle quali la sua mente incappava.
Mano a mano, il cuore le si stava aggiustando, spronato dagli esigui ricordi felici e dalle vittorie ottenute. Le lacrime che fino a pochi minuti prima avevano solcato quelle rosse gote, riassorbendosi, facevano tornare gli occhi luminosi. La voglia di vivere lentamente ricominciava a scorrere nelle sue vene, conferendole coraggio. Addirittura il grigio gattone della bimba aveva riacquistato sensibilità e zampettava verso la porta a passo di marcia. Lucira si sporse dal letto per accarezzarlo, ma notò qualcosa di insolito che giaceva sul pavimento.
Capì che si trattava di un piccolo pennarello rosso, il colore da lei più amato. Le piaceva così tanto perché era come una chiazza di diversità nella monotona routine di tutti i giorni e permetteva alla sua immaginazione di galoppare senza limiti. Strinse fra le dita il pennarello, avvertendo la durezza della sua superficie e scrutando ammaliata il vivace e allegro rosso. Per metterlo alla prova, trasse di tasca un foglio e tentò di tracciarvi qualche linea, ma dopo il primo tratto si accorse che disegnare sulle pareti sarebbe stato molto più divertente. Decisa, cominciò a delineare i contorni di una porticina e non si fermò fino a quando la porzione di muro da lei desiderata non venne totalmente ricoperta dal graffito. Completata la sua missione, però, provò una sensazione strana, come se stesse involontariamente omettendo di compiere un importante gesto capace di cambiarle la vita.
In trance, allungò la mano e si ritrovò la maniglia della porta tra i palmi sudati, le nocche bianche per lo sforzo. D'improvviso, la soglia s'aperse e Lucira, senza indugio, la oltrepassò temerariamente. Là, davanti ai suoi occhi stupiti, si apriva una vista spettacolare. Dappertutto c'erano alberi dai tronchi di spessore differente. Alcuni erano giovani e snelli, così
sottili da poterli abbracciare, mentre altri, larghi e antichi, affondavano profondamente le radici nel terreno soffice. Ai loro lunghi rami diritti erano legati fili trasparenti dai quali pendevano lucine e lanterne, che illuminavano il bosco di un'atmosfera mistica.
Uno spiraglio di luce proveniente dalla camera di Lucira filtrava oltre la porta, mettendo in risalto un sentierino quasi invisibile. Lei lo percorse curiosa, fino ad arrivare in promissimità di un fiume, scintillante e pulito. Prese dalla tasca il fidato pennarello e abbozzò una piccola barchetta ad un posto sul pelo dell'acqua. Subito il disegno prese vita diventando reale e la sua creatrice vi salì sopra. Quando si sedette, udì un morbido scricchiolio e la lucida vernice si scrostò leggermente nel punto dove aveva appoggiato i piedi. Fece navigare la barca, che scivolò lieve per tutto il viaggio, costeggiando le rive. Neanche Lucira sapeva dove andare, ma stranamente non provava ansia o terrore, solo un senso di soddisfazione, placida calma.
A un tratto, il bosco finì e lo straordinario spettacolo di una città galleggiante si parò innanzi alla ragazzina. Lunghi canali percorrevano l'area di quel luogo al posto delle strade tradizionali. L'ingresso era costituito da due torrette con le guglie collegate fra di loro che andavano a formare una specie di corridoio a cielo aperto. Sotto ad esso, su di un lato, si stagliava un'abitazione bassa ma lunga, dal tetto color azzurro vivo. L'insolito palazzo dava su un alto arco contornato da due torri attraverso il quale si entrava nel centro della città, tranquillo e silenzioso. La maggior parte dei tetti era appuntita, ma in qualche casa se ne potevano trovare a forma di cupola gialla. Tutto pareva antico e nell'insieme rappresentava un panorama mozzafiato. Grigi mattoni che sembravano avere oltre cent'anni erano stati usati per la costruzione di quel posto stupendo, così magico. Gli edifici dotati di finestre arcuate avevano forme e dimensioni totalmente diverse, che variavano continuamente. Quest'enorme città, affascinante e strana, attirava incommensurabilmente Lucira, che si sentiva a casa.
Con la barca riuscì a sorpassare le mura esterne e, lentamente, iniziò ad addentrarsi nel fulcro del luogo. Mentre percorreva le acque, amichevoli guardie fornite di cinturoni, berretti e uniformi ocra la salutavano, facendo cenni con le mani. Intanto, delle gondole galleggiavano lungo i canali, capitanate da donne e uomini con in testa cappelli di paglia a tesa larga. Distratta dalla loro vista, Lucira non si accorse di un imminente pericolo, ossia la profonda cascata con cui terminava la via. Invano, le guardie si sbracciarono, cercando di avvertirla, ma quando lei si rese conto di ciò che stava per accadere era ormai troppo tardi. Precipitò giù, con la mente in tumultuosa confusione.
Sovrappensiero, disegnò in aria una grande mongolfiera e vi saltò sopra. Mentre il cuore le si calmava e il respiro affannoso diventava più regolare, il pallone si librava leggero e maestoso, sospinto da un fresco venticello. In pochi attimi, giunse al di sopra delle candide nuvole color panna e vide qualcosa che non le piacque per niente. Un'enorme nave solcava il cielo, emettendo nero fumo puzzolente. Due dirigibili descrivevano attorno ad essa larghi giri, accostandosi e allontandosi continuamente. Al loro interno, minacciose figure incappucciate discutevano, con i lineamenti accennati appena visibili. Uno di questi individui teneva in mano un retino largo e lungo dalle maglie di ferro, gelido come il sangue nelle vene di Lucira. I minuti passavano e la mongolfiera si avvicinava ai dirigibili ogni istante di più. La bimba scorse così l'aspetto delle persone che infestavano i suoi pensieri, incupendoli. Portavano elmi e armature grigiastre. "Fra tutti i colori, dovevano andare a scegliere proprio questo! Grigio nebbia, fumo, cenere, tristezza e sogni infranti", fu la prima riflessione che le si affacciò alla mente. Non avevano barba né baffi, solo glabri visi lucidi sui quali passavano ghigni di scherno.
A capo di tutti loro stava un uomo vestito d'oro con le guance coperte di barba, che però sembrava il più crudele. Le sue labbra restavano rigide, sottili come la linea dell'orizzonte e severe quanto uno chignon troppo stretto. Il dito era puntato irrimediabilmente in una direzione: dritto davanti a sé. Lì, libera e stupenda, volteggiava una fenice fucsia dalla coda sinuosa. Compiva voli pazzeschi nel cielo azzuro, mettendo la propria bellezza in mostra. Mentre si riposava, però, il retino le arrivò addosso, inglobandola. Lucira sentiva fitte di dispiacere qui, in fondo allo stomaco, come quando terribili incubi le ghiacciavano il sudore sulla fronte. Piedi e mani tremavano dalla voglia di fare qualcosa per aiutare il povero pennuto. Gli occhi sprizzavano scintille dalla rabbia e la nera chioma le si spettinava al vento, finendole in bocca. Non poteva soffrire le ingiustizie.
Silenziosamente, atterrò su un'estremità del barcone, non molto lontana dalla creatura. Balzò a terra con uno scatto, cauta. Il pensiero di una vita in gabbia, di una mente imprigionata, la spingeva a correre lungo il ponte principale e a salire sulle pericolose scalette che conducevano al posto nel quale la fenice, un tempo bella e colorata, stava rinchiusa mogia mogia. Si trattava di un tempio giapponese. Il tetto, d'oro massiccio, aveva i bordi che si piegavano all'insù, illuminando il cielo plumbeo, e un drago maestoso scolpito sopra. Al di sotto, su un altare, c'era una gabbia e intorno due guardie dallo sguardo sprezzante, che sembravano perse in malefici intrighi. Ma la loro disattenzione le tradì. Infatti, in una frazione di secondo, l'altare era rimasto vuoto e Lucira stava fuggendo con la piccola prigione fra le braccia.
Arrivata sul ponte principale, nero come l'inchiostro, spalancò la gabbia e permise alla fenice di volare via. L' uccello, per ringraziarla, cominciò a piroettare e a fare acrobazie in aria, tornando felice. Lei, trasognata, lo osservava perdendosi in quei miracolosi voli. Le guardie, però, accortesi della fuga, la raggiunsero con le armature scricchiolanti, veloci come saette.
Istintivamente, Lucira infilò la mano nella tasca, ma non vi trovò nulla. Disperata allora, col cuore martoriato dalla paura, gettò un'occhiata al lurido suolo e lì lo vide. Il pennarello giaceva inerte, il rosso spento, vicino ai piedi dell'uomo dorato. Mentre un paio dei suoi accoliti la tenevano ferma, lui le giunse davanti. Guardò il pennarello con aria malvagia, accorgendosi degli sforzi che la bimba compiva per liberarsi. Lo raccolse e con fare enigmatico allungò il braccio nel nulla. Fu un attimo. La stretta si allentò e l'oggetto precipitò nel vuoto, mentre i bulbi oculari di Lucira si annebbiavano.
Avvertiva profondi crampi alla pancia e faticava a respirare. Voleva rimanere cosciente, salvare la situazione, ma invece svenne sul più bello. Roteava gli occhi all'insù, mentre immagini verde acido su sfondo nero le passavano innanzi come treni. Le voci aspre delle guardie risuonavano e la testa pareva volerle scoppiare. Si risvegliò con la nuca dolorante. Quando tentò di mettersi in piedi, sbatté le braccia su alcune sbarre metalliche. Si rese conto della situazione nella quale si trovava e la paura le attanagliò le vene, visibili sotto il pallore etereo che caratterizzava la sua pelle. Cadde in ginocchio, i pensieri che vorticavano. Sdegno, rabbia, angoscia... Giocavano al girotondo tenendosi per mano. Ombre scure calavano e lei faticava a distinguere qualunque cosa nel buio.
Una forma confusa però si avvicinava, illuminando di speranza il cielo. La fenice, pennarello nel becco, atterrò sulla cima della gabbia e restituì a Lucira il portafortuna. Adesso la felicità riempiva i tratti tristi e stanchi della bimba e le rughe di preoccupazione svanivano. L'adorato oggetto le si mosse fra le mani, come per spronarla a disegnare, lei non esitò. La sua immaginazione partì con un ronzìo e subito le eleganti frange di un tappeto orientale le comparvero fra le dita. Avvertiva un brivido di eccitazione, la pregiata seta del tappeto la solleticava.
Salì sul bizzarro mezzo di trasporto in men che non si dica. Quello partì all'istante e in poco tempo la condusse fra i caldi colori e la sabbia fine del deserto. Sorvolarono una città. Le mura delle abitazioni terminavano con cupole arrotondate al posto dei tetti. Aleggiava una soffusa luce arancione, che illuminava i palazzi e vi faceva comparire lunghe ombre. La bimba era affascinata da ogni piccolo particolare. C'erano alte palme slanciate e porte ad arco che lei aveva fino ad allora sempre e solo immaginato. Seguì l'amico uccello attraverso distese di dune sovrastate da uno spettacolare cielo stellato. Pomeriggio, sera... presto si sarebbe fatta notte. Il tempo aveva abbandonato con un fruscio la terra, involandosi su di un altro pianeta.
A un tratto, mentre superavano una palma, il tappeto sterzò e si adagiò sul terreno, arriciandosi tutto. Lucira, incuriosita, guardava il tronco della pianta, morbido ed elastico. In mezzo alla corteccia, come per magia, comparve un piccolo uscio rosa. La fenice, senza indugi, lo varcò e l'amica le andò dietro. Sbucarono in un posto molto ordinario, che non aveva nulla a che fare coi luoghi nei quali la bimba aveva vissuto tante avventure. La sua città, rumorosa e sporca, la accoglieva, come per chiederle di restare. Scioccata, Lucira volse lo sguardo e la gioia cominciò ad invaderle il cuore. Finalmente era a casa.
Un ragazzino più grande di lei, con un pennarello fucsia in mano, corse verso la fenice, abbracciandola. Non ci fu bisogno di parole, la bimba e il nuovo compagno di giochi si capirono subito. Insieme, un pezzo alla volta, crearono una bici a due posti, rossa e viola. Così, mentre la bici sfrecciava libera e colorata nella frizzante aria serale, soffici coperte di oscurità avvolgevano i due amici.
Comments